Tra le pecore e i padroni. Passi e inciampi da una scuola di provincia

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Tra le pecore e i padroni. Passi e inciampi da una scuola di provincia
(copertina di enrico pantani)

Dal numero 13 de Lo stato delle città

Apro la casella delle mail e mi ritrovo una sfilza di circolari, comunicazioni, avvisi con numero di protocollo. Comincia un altro anno di lavoro dentro la scuola, il secondo da quando sono uscita dall’università. Un anno fa a quest’ora non immaginavo che sarei riuscita a imparare più di duecento nomi e cognomi, stare di fronte a trenta ragazzi senza potermi nascondere, parlare di disequazioni, rette, termodinamica e riuscire a tenere il filo del discorso per un’ora nonostante interruzioni, domande, rumori. Non mi ero chiesta cosa aspettarmi dal lavorare a scuola, forse non me lo chiedo tuttora. Non sapevo come si compilasse un registro elettronico né un pdp o un pei, quanto fossero noiosi i collegi docenti né come parlare ai genitori durante gli incontri scuola-famiglia. Mentre ogni ora passata dentro le classi mi impone di esserci senza tregua, ascoltare e non stare altrove, tento di addentrarmi in questo magma senza deformarmi, di osservare le persone e le pratiche senza schiacciarmi all’osservanza.

Un giorno squilla il telefono e scopro che insegnerò in un istituto tecnico elettrico e in un liceo scientifico, una piccola scuola di provincia, unico plesso a rischio chiusura tra gli ultimi paesi del Lazio all’incrocio con Umbria e Toscana. Non faccio in tempo a conoscere tutte le classi che già inciampo in chi dispensa consigli vedendomi giovane e inesperta. «Devi mostrarti padrona di quello che dici, fai le prove a casa per strillare come si deve, dal tono di voce devono capire chi comanda, sennò ti mangiano». È la prima di infinite volte in cui sentirò parlare dei ragazzi del tecnico elettrico come di bestie allo sbando. Prima di pensare a come ribattere, mi chiedo se quando ero al liceo anch’io, nemmeno dieci anni fa, i miei professori parlassero allo stesso modo di noi. All’inizio gli studenti sono volti e corpi sconosciuti, ma mi incuriosiscono le loro vite, la loro cadenza così diversa dalla mia, i paesi in cui si muovono e per me nuovi. So di non poterli capire dai primi giorni, non spero che mi considerino loro amica, ma non voglio nemmeno ingabbiarli e domarli. C’è come un intuito primitivo a credere in quegli sguardi, non come atto di fede ma di fedeltà, sarà che quella mattina ascoltavo Heart of gold guidando verso scuola. Sono sguardi storti, di sbieco, mi spiano quando ho gli occhi sul libro o alla lavagna quasi non li riguardasse la presenza di una prof nuova. Penso che posso guardare obliquo anch’io, restare aperta a quegli esseri un po’ alieni che magari non avranno grandi passioni per la matematica, ma per qualcos’altro sì.

Nel tempo ho scoperto che ad alcuni di loro piace stare in campagna, «qua è terra di patate, prof», e svegliarsi alle cinque di mattina per andare col trattore, che quest’anno le fave crescono al contrario perché è bisestile. Che si possono fare mille modifiche a un apetto, come lì chiamano l’ape Piaggio: l’impianto stereo con subwoofer, marmitta e motore Polini, vetri oscurati, ruote con distanziali, pure luci di Natale per addobbare l’abitacolo. La storia delle fave non l’ho ben capita, ma erano troppo convinti per smontarli. Non ho fatto le prove per gridare da professionista come mi era stato suggerito, ma almeno ho vissuto paesi come li vedono loro, alla deriva fra tre regioni dove per non sentirsi fuori dal mondo e non morire di noia serve molto più sforzo che per risolvere un’equazione. Andare a sgommare con gli apetti nel parcheggio del cimitero, spingersi con motorini fino al paese più grosso per trovare le ricariche delle sigarette elettroniche che tengono perennemente in mano. Quegli stesi paesi sul web e sulle locandine dei festival sono i “borghi autentici della Tuscia incontaminata”, dove i pellegrini percorrono la via Francigena “in compagnia degli Etruschi”.

STUDENTI PER CASO
Quando eravamo alle medie, c’era un compagno di classe che era un mostro in matematica. Trovava vie alternative per arrivare al risultato, saltava passaggi intermedi, riusciva a vedere con facilità le conclusioni. Non lo dico per celebrare capacità aliene e neppure per entrare nelle dinamiche di talento e predestinazione che ritengo fuorvianti, soprattutto nel contesto dell’istruzione pubblica. Era forte con i numeri, poi andava un po’ peggio nelle altre materie. Possibile che ora abbia cambiato idea e abbia trovato in Boccaccio la sua ragione di vita, ci siamo persi di vista da un po’. Era nato in Marocco e si era trasferito in Italia a un anno, e insieme ai fratelli doveva mantenere la famiglia come poteva.

La fine di gennaio del nostro ultimo anno alle medie era il termine per procedere alle iscrizioni alle superiori. Già da novembre i referenti dell’orientamento delle varie scuole erano in fila per accaparrarsi lo studente in più. Parecchi di noi avevano idee chiarissime: chi era improntato su percorsi liceali, chi si avvicinava agli istituti tecnici, chi ai percorsi professionalizzanti. A un certo punto ci avevano chiesto se volessimo fare l’università. Avevamo quattordici anni e la sola prospettiva di doversi svegliare ogni giorno alle sei per prendere un bus e fare i pendolari ci pareva enorme e lontanissima, non avevamo neanche gli strumenti per immaginarci futuro da lì a cinque anni. Con lo sguardo consapevole di ora, ci presentavano la scelta che avremmo dovuto fare come una di quelle importanti, quelle che tracciano i percorsi dell’esistenza. Quasi non si potesse cambiare, né noi come persone né la scelta che dovrebbe essere a noi secondaria: sarebbe stata una perdita di tempo, un fallimento. È proprio questo che hanno provato alcuni compagni del liceo dopo che, nel corso degli anni, si sono accorti che un altro indirizzo incrociava di più i loro interessi. Ancora fanno fatica ad ammettere che hanno cambiato scuola, come se non aver finito il liceo contasse veramente qualcosa.

La scadenza si avvicinava ma i dubbi restavano un po’ a tutti. Poi era venuta fuori la questione del potersi permettere l’università. Già in terza media ci veniva chiesto di conoscere la situazione familiare, il reddito che traccia confini pretenziosi, limiti invalicabili. Ci mancava solo che un quattordicenne prima di scegliere la scuola dovesse andare dal commercialista, al Caf o in banca per richiedere un prestito studentesco, magari c’è qualche tasso agevolato per minori. Avevamo fatto tutti una scelta. Il mio amico bravo in matematica non poteva frequentare un liceo, troppo poche sicurezze: ci avevano detto che finito il liceo si deve necessariamente andare all’università e lui non era in grado di dire se genitori lo avrebbero potuto mantenere ancora dopo il diploma. Per questo aveva scelto un istituto tecnico. Glielo dissi in tutti i modi che doveva venire allo scientifico.

Me lo racconta Tommaso, un ragazzo di quarta che ho conosciuto l’anno scorso, mesi dopo l’inizio della scuola. Un giorno di gennaio entro in classe e scopro che quel banco che ero abituata a vedere vuoto non era più lì, il ragazzo sconosciuto che era stato all’estero per uno scambio era tornato. Così, ora che non sono più in quella scuola e la classe di Tommaso si ritrova con il sesto o il settimo supplente diverso in cinque anni di liceo, abbiamo cominciato a scriverci per pensare a una scuola altra o almeno per dirci poche cose senza l’abisso dei ruoli che affossa il parlarsi e il tramandare tra generazioni.

Ci siamo chiesti a cosa serva una scuola come quella che si trovano a frequentare, a cosa li prepari; alla vita? a che tipo di vita? È dalla definizione del fine che si possono trarre dei giudizi sul funzionamento di una cosa. Che la scuola italiana non funzioni, tutti lo sentono e alcuni lo dicono. Quello che non si dice è che forse la scuola non funziona più proprio perché è programmata per non funzionare. Scuola-azienda, scuola-parcheggio, scuola-ufficio, scuola-prigione. Chissà che il non funzionamento apparente del dispositivo scolastico sia proprio l’anima del suo lavoro. Se la scuola produce sempre più ignoranza, allora funziona fin troppo bene come catena di trasmissione verso un mercato del lavoro che si crea da sé la propria manodopera generica e molto docile, poco pensante e molto vociante, che non sa niente di specifico, povera (se non priva) di spirito critico. Stagisti da reclutare e dismettere a seconda delle volubili tendenze del mercato. Così con Tommaso cominciamo a dialogare sul fine, i fini, per poi a ritroso confrontarli con quello che facciamo o vediamo fare nel quotidiano.

Quando penso al compagno forte in matematica che non poteva scegliere il liceo, penso che la scuola ha smesso di essere un luogo dove emanciparsi, crescere guadagnando consapevolezza, ed è tornata un organo di riproduzione sociale che divide brutalmente chi è nato per zappare da chi è nato per studiare. Mi viene in mente la mail inquietante di un collega: «Dovete entrare in una prospettiva Pnrr/Stem/Didattica orientativa che è sistemica e irrinunciabile nel mondo della scuola». Che senso ha avere fiumi di soldi europei per progetti pomeridiani che orientino gli studenti verso le competenze Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) cosi richieste dal mercato del lavoro, se a quei progetti approdano solo pochi privilegiati? Eppure, nella palude delle retoriche sul merito, l’intera responsabilità educativa pare ridotta alla responsabilità individuale del singolo studente. Se va bene o meno dipende da quanto ti sforzi. L’impegno come condizione necessaria e sufficiente per la buona riuscita del percorso di studi. In una terza scientifico, Andrea si sente ripetere da più di un anno che il liceo non fa per lui, che deve passare al tecnico, tanto se dopo vuole fare il muratore come suo padre gli basta un diploma qualsiasi. Ogni giorno che entro in classe lo trovo con lo sguardo sempre più spento, con sempre più rabbia contro i professori che lo escludono, e a fine anno già sa che sarà bocciato. Ora fa una scuola privata telematica per recuperare due anni in uno. Ha diciassette anni e non mette più piede in una classe, guarda lezioni registrate in aule virtuali senza compagni, convinto che non gli va di fare niente, che non gli piace niente, «prof, io non so’ bono». Intanto la stessa scuola che l’ha risputato fuori si affanna ad accaparrarsi fondi Pnrr per progetti di lotta alla dispersione scolastica e la riduzione dei divari territoriali. Per colpa di questi fondi hanno anche tagliato gli unici alberi che c’erano intorno alla scuola, dei pini marittimi. Tommaso mi raccontava che aveva scelto questa scuola perché, quando era venuto a visitarla durante uno degli open days, gli alberi lo facevano pensare al mare anche in mezzo al grigiore.

MORIBONDI EFFICACI
Nell’assillo all’efficienza è difficile convincere i ragazzi che quei numeri con la virgola che vedono comparire sui loro profili di carriera sono insignificanti. Ogni volta che entro in classe qualcuno viene a chiedermi, in qualità di massima esperta di numeri, che voto devono prendere in qualche materia per alzare la media da cinque virgola trentasette a otto. Mi mostrano i grafici del rendimento che l’app del registro elettronico genera per ogni disciplina e mi sorprende vedere come loro si rispecchino negli andamenti ascendenti ○ calanti, nei colori verde o rosso a seconda che il voto sia sufficiente o no. Non sono voti che registrano reali evoluzioni, dicono solo quanto bene hai obbedito incamerando informazioni e rigurgitando a comando biografie, date, regole che puoi scordare dopo aver incassato il premio (l’addestramento perfetto per fare un lavoro che non ti piace). Il voto diventa oppressione: se svolgi bene il tuo lavoro verrai premiato, sennò verrai punito. L’ansia della verifica, la paura delle insufficienze, il panico della prestazione, il terrore del fallimento. Invece vorrei intuissero che fuori da scuola non ci sono premi e punizioni, che i sacrifici non hanno ricompense e le cattive azioni non sempre ricevono castigo, anzi a volte sono retribuite in successo e denaro. Ma come possono intuirlo, se dai genitori sono ossessionati con i voti? Appena non vanno così bene come la famiglia pretende, sorgono malcontento, minacce, divieti per il tempo libero, oppure genitori e figli si atteggiano a vittime di un’ingiustizia per l’insegnante che non sa capire, che non sa apprezzare. Come se si potesse tenere insieme la crescita personale, che non ha scansioni e calendari, con la crescita da studente e rispettare tutti alla lettera la stessa tabella di marcia. Come se fosse ovvio che uno stesso software possa andare bene su tutti i dispositivi: ci sono ragazzi che attraverso lo studio riescono a esprimersi, ad avvicinarsi a quello che vogliono essere, ma ce ne sono molti altri per cui la scuola è ingombro, condanna senza via d’uscita. E finiscono per credere di essere sbagliati: se la scuola è la cosa più normale del mondo, se ci vanno o ci sono andate tutte le persone che conosci, allora è l’unica realtà possibile e quello incapace sei tu.

Quando esci da scuola. fai cose dopo non sei più lo stesso; nessuno se ne accorge, devi per forza stare al passo con gli altri. Se il pomeriggio prima non l’hai passato in camera a leggere sul libro di scuola le cose precise su cui verrai interrogato, sei insufficiente. Anche se sei stato a tagliare la legna o a raccogliere l’uva per guadagnarti qualcosa, come Stefano. Sta all’ultimo banco dentro il corpo di un gigante, ma ha solo sedici anni. Quando ti ritrovi la voce grossa e quella stazza non scappi all’idea del vandalo vagabondo: gli altri insegnanti ne parlano come di uno che dà solo problemi, che a scuola ci capita perché il pullman lo lascia lì vicino, da tenere sotto controllo per quello che porta nello zaino. Comincio a guardarlo attraverso i fogli che consegna per le verifiche, strappati da un quaderno a caso e pieni di caratteri grandi e sgangherati, tante cancellature rabbiose e un disordine che farebbe sbagliare calcoli a chiunque. Colgo la voragine tra lui e la pagina bianca, la posizione curva e concentrata sul banco così distante dai gesti a cui è abituato, lavorare in campagna con attrezzi pesanti, non una penna sottile nella mano enorme con i calli alle dita. Provo a farlo intervenire durante le lezioni, che in quella classe sono intermezzi tra richiami, battute estemporanee e risate. Quando risponde o fa domande, dagli altri banchi si sollevano frasi sorprese e principi di insulti per tradimento al disinteresse collettivo.

Quando li avviso che per le interrogazioni non serve dire cose a memoria, mi vedo sguardi diffidenti, pronti alla fregatura. Trovarsi problemi mai affrontati prima fa saltare le categorie che avevano regnato in base alla media di ognuno. Ciascuno può metterci del suo, modi di rappresentare graficamente il problema e strade diverse per risolverlo, non come quando studiano tutti la stessa cosa e vince chi la dice meglio senza tentennare. Voglio indurli ad attingere qualcosa dentro di sé, così quando propongo un quesito sul confronto tra preventivi di noleggio di trattori e furgoni, usano rette e sistemi lineari e si fanno aiutare dal senso pratico dove i calcoli si inceppano.

Arriva la festa di carnevale, ogni classe sceglie un tema per mascherarsi e una giuria di professori decreta i migliori durante la sfilata nel parcheggio della scuola. È la corsa ad affittare costumi elaborati, trovare idee alternative e scenografie clamorose, ma solo per gli studenti del liceo.  I ragazzi del tecnico nemmeno ci provano, stanno in disparte a fumare di nascosto, come avessero introiettato il loro destino subalterno e marginale. Stefano si era offerto di portare le casse per la musica e una consolle un po’ casereccia, è indaffarato a sistemare l’attrezzatura sui banchi e indossa le cuffie da dj facendo partire a comando le musiche di sottofondo per la sfilata di ogni classe, mentre gli insegnanti sono presi a fare video euforici ai travestimenti ricercati. Quando finalmente può scegliere la sua musica, Stefano si sfoga con la techno, ma i liceali mascherati arrivano a lamentarsi chiedendo i balli di gruppo. Lui si incazza, stacca i fili e smonta tutto anche se non è ancora tempo per uscire da scuola. La mia macchina è lì vicino, carichiamo l’attrezzatura e al suono della campanella lo accompagno al suo paese, attraverso le strade sterrate dell’alta Tuscia. Scopro che vive in una casa di campagna con i nonni, che il padre è malato da tempo a causa di prodotti tossici inalati lavorando la terra, la madre ha altre due figlie da crescere e pochi soldi. Mentre scarichiamo le casse in uno scantinato che sento familiare tra legna e attrezzi da lavoro, si affaccia la nonna con delle uova fresche per me e quel senso di riverenza quasi feudale per dottori e notabili, Mi dice che Stefano è un bravo ragazzo, «un po’ fori de capoccia» ma lavora ogni pomeriggio dove trova, si fa i chilometri con la Vespa anche sotto la pioggia, più il volontariato alla Protezione civile nel fine settimana. A volte deve lavorare anche di mattina quando è stagione piena per la campagna, eppure a fine anno, quando lo minacciano con la bocciatura per le troppe assenze, lui non dice mezza parola sul perché salti spesso scuola. All’idea di perdere l’anno perde la pazienza, smonta la porta dell’aula a pugni e prende l’ennesima nota, la mattina dopo entra in classe con avvitatore e cassetta degli attrezzi per ripararla.

Mi chiedo perché le cose pesanti o tragiche che gli studenti portano in aula, e ce ne sono tantissime, non possano esistere tra quelle mura, perché la scuola resti incapace o rinunci a interrogare il difficile. ragazzi sono ostaggio della loro sofferenza mentre passano metà della giornata in un luogo che non sa vederla. Se quel malessere non sai portarlo in sordina ed essere uno studente come gli altri, vedi la media dei voti e il grafico decrescere. Come Maksym, che è scappato dall’Ucraina con la madre e nonostante vada a scuola da due anni non vuole parlare italiano, tiene tutto il tempo gli auricolari sotto i capelli ricci, ma finché sta piegato sul banco senza dare fastidio nessun insegnante si accorge di lui. Continuano a bocciarlo perché non fa niente, qualcuno ha il coraggio di dire «meglio bocciato che morto, tanto se torna al paese suo lo mandano a sparare». Quando incontro la madre di Maksym ai colloqui pomeridiani, chiedo se lei parla italiano, risponde di sì con uno sguardo spaesato che grida aiuto e appena le chiedo come sta scoppia in lacrime. Mi dice che il figlio odia la scuola, odia l’Italia, odia lei che l’ha portato qui, parla solo con i suoi amici rimasti lontano e sta in camera a giocare al cellulare e tirare pugni al muro. Durante gli stessi colloqui arriva la madre di Stefano e mi guarda come fossi un miraggio. Mi racconta che una mattina il figlio doveva saltare le lezioni per aiutare gli zii in un casolare, ma le chiede di andarlo a prendere da scuola dopo la prima ora perché doveva finire il compito di matematica e poi andare al lavoro. Lei non l’ha creduto fino a quando l’ha visto con lo zaino di scuola e la tuta da lavoro ripiegata dentro.

MACERIE E MACIGNI
Mi sono ricordato di quell’ incontro con ITS Academy di Viterbo sull’orientamento in uscita post diploma, c’era anche lei? Il primo a parlare è stato un uomo sulla cinquantina a capo di non so quale azienda «leader» nel preparare i ragazzi al processo che dovrebbe concludersi con l’assunzione. Insomma, per un ora ha annoiato tutti con metodi efficaci per apparire sicuri, affidabili, veloci, disponibili, competenti e tutta una gamma di aggettivi inseriti in un grande frullatore che appiattisce differenze interessi in uno smoothie organico che ti rende il più feroce dei lupi di Wall Street. Si sporge pure sul lato psicologico, facendo occhiolino alle più basse teorie motivazionali che passano dal banale «you can do it» ai corsi tenuti da guru abbastanza carismatici per intortare la gente, tipo quelli che spopolano su YouTube nelle pubblicità prima dei video. Ci stava iniziando alla trattativa di un pacchetto di successo: il lavoro c’è, sicuro; assoggettatevi al sistema che poi ci pensa lui a rendervi abbastanza produttivi per accontentare le richieste del padroncino di turno.

I docenti rimasero abbastanza attoniti dalle esclamazioni di quello che era parso più uno showman che un educatore. Un prof alla fine dell’incontro fu chiaro: ore sprecate, parole inutili. Non capiva perché quell’evento fosse stato proposto al liceo. Ne uscimmo quasi indenni, stanchi e annoiati ma sicuri che l’esperto non aveva modificato le nostre prospettive future. Avevamo attivato meccanismi di decodificazione di messaggi neanche troppo subliminali; eravamo riusciti a riconoscere che quel trainer non stava realmente parlando a noi ma a qualcos’altro. Solamente un nostro compagno ne era uscito interessato, aveva anche preso appunti.

Ricordo bene l’incontro di cui parla Tommaso, ho assistito in più giorni a quelle scene patetiche con classi diverse. C’era una formatrice ossessionata da soft skills e public speaking che illustrava alle ragazze le performance di Milly Carlucci elogiando il suo modo di padroneggiare il microfono e suggeriva l’abbigliamento perfetto per fare colpo a un colloquio di lavoro, mentre io abbassavo lo sguardo su jeans e scarpe da ginnastica con cui avevo calcato corridoi e aule per tutti quei mesi. Tommaso descrive una scuola-impresa che tratta i genitori come utenti da conquistare e gli scolari come clienti, incitati a consumare e non a capire. Queste academy esistono in ogni regione: sono fondazioni che offrono percorsi post diploma finanziati dal ministero dell’istruzione, ad alta specializzazione tecnica che assecondano le specifiche vocazioni dei territori. Parafrasando senza troppe perdite semantiche, formano la forza lavoro necessaria alle aziende del distretto territoriale dell’istituto. Per esempio, andando a leggere tra le academy in Puglia, spicca la specializzazione per «le nuove professioni del turismo del futuro: digital storytelling, narrative design, innovation management». La formazione impostata sui bisogni del mercato corrode la scuola pubblica: in un collegio docenti siamo stati chiamati: a votare la nascita di un nuovo indirizzo, il liceo del Made in Italy, pensato per promuovere «le conoscenze e le abilità connesse all’eccellenza del pro dotti e della tradizione italiana attraverso un percorso liceale in grado di dare competenze storico- giuridiche, artistiche, linguistiche, economiche e di mercato idonee alla promozione e alla valorizzazione dei singoli settori produttivi nazionali». A questo si aggiunge il Pcto (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) che spalanca le porte alle aziende che sfruttano ragazzi e comprano consensi.

Il portfolio, la piattaforma Unica, il «capolavoro», i crediti: sono alcune delle aberrazioni a cui ha portato l’interiorizzazione delle logiche aziendali in campo pedagogico. Si marginalizzano le conoscenze per puntare alle competenze, si accorcia il tempo dell’apprendimento per rincorrere i tempi di un’istruzione orizzontale che si muove in estensione e non in profondità. Massimizzare il profitto individuale si traduce in capitalizzare ciò che si è imparato per spenderlo nella carriera successiva. Il sapere non immediatamente spendibile scompare e con questo la possibilità di utilizzare le conoscenze per contestare un mondo fondato sui profitti. Si educa all’efficacia immediata del gesto, le domande di senso sono percepite come inutili, la crescita personale è rimpiazzata da risposte meccaniche a stimoli precisi. Non serve chiedersi perché e per che, basta chiedersi come si fa: a prendere otto, a passare l’esame, a fare contenti i genitori.

Gli insegnanti sono ridotti a funzionari che devono incassare risultati a breve termine, il valore degli alunni deve essere visto in modo chiaro e quantizzabile dentro griglie elettroniche, i fogli excel, che calcolano punteggi e medie. Peggio ancora, con la digitalizzazione galoppante il docente è relegato alla funzione di operatore della macchina, addetto al controllo e alla programmazione del dispositivo che lo espropria del suo ruolo. In un corso di formazione sulla realtà virtuale e aumentata e sull’uso dei visori 3D (imposto dalla scuola sempre con i fondi del Pnrr per la «transizione digitale» del personale scolastico), il formatore ci annuncia trionfante che grazie ai visori finalmente possiamo smettere di accompagnare i ragazzi in gita, «potranno vedere gli scavi di Pompei senza combinare casini in albergo, vi liberate dalle responsabilità». Chiedo ai colleghi se la relazione educativa debba tramutarsi in una simbiosi utente-macchina e mi sento rispondere che Meta ha recentemente ridotto il requisito minimo di età per l’uso dei visori a dieci anni, mentre un’altra docente propone di chiudere un occhio su questo limite e proporre i visori anche alle elementari, per innovare la didattica e far immergere i bambini nella storia e nelle scienze. Mi spaventa il fatto che gli insegnanti sono impiegati dello Stato e perciò non si sentono messi in discussione perché hanno dalla loro parte il sistema che li protegge. L’affaticamento si trasforma in indifferenza: i docenti precari e abituati a ritenere inevitabili le loro condizioni lavorative sono in posizione così subalterna nell’organizzazione del lavoro che diventano moltiplicatori di rassegnazione, missionari dell’ineluttabilità dei rapporti di sfruttamento e della precarietà esistenziale. Mi risuona in testa uno stornello popolare umbro sulla transumanza, che Alessandro Portelli ha registrato nei primi anni Settanta direttamente dalle voci di pastori, contadini e operai della provincia di Terni.

E io dormo tra le pecore e li cani
pe’ fa’ magna’ l’agnelli a ‘sti padroni
se magnano la carne li padroni
e a noi ce danno l’ossa come cani
vonno li nostri figli a fa’ il garzone
e i figliol loro a fare ul professore

Invece che ridurci a controllori dei tempi di produzione dentro questa fabbrica dell’obbedienza, abbiamo il dovere di tenere in vita le domande, chiederci quali sono le conseguenze di ciò che facciamo e di ciò che non facciamo. Occorre insistere sulla teoria pedagogica perché l’attenzione e la precisione richieste per educare alla critica e smascherare dispositivi di potere non rendono più possibili approcci dilettantistici. Occorre «prendere coscienza delle implicazioni politiche del lavoro educativo e scandagliarle in tutte le direzioni assumendosene la responsabilità etica», ha scritto Emiliano Schember nel numero 11 di questa rivista. Resisto nel credere che insegnare sia fare nel futuro, un lavoro alla cieca quasi, vago e incerto. I segnali di ritorno, se mai arriveranno, saranno indecifrabili, e comunque ci vorranno decenni. Intanto da settembre è cominciato un altro anno in un altro posto, con nuove classi e nuove dinamiche. Penso a Sisifo e al suo macigno ai piedi del monte, poi a Camus che scrive che «ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna ammantata di notte, formano, da soli, un mondo». (chiara romano e tommaso santori)

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