Calamite cinesi e prestanome pachistani. Cosa sta accadendo al commercio nel centro storico di Napoli?

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Calamite cinesi e prestanome pachistani. Cosa sta accadendo al commercio nel centro storico di Napoli?
(disegno di salvatore parlapoco)

Sono un abitante del centro storico di Napoli.

Negli ultimi tempi intorno a me si sta verificando uno strano fenomeno: ogni negozio a cui scade il contratto di affitto non rinnova e chiude, dato l’esagerato aumento richiesto dai proprietari. Fin qui tutto normale, è la solita schifosa ma obbligata legge della domanda e dell’offerta. E se non capite adeguatevi.

Giggino il salumiere è andato via il mese scorso, seguito pochi giorni dopo da Enzo dei detersivi, quindi Titina della frutta. Giggino pagava seicento. Nuova quotazione duemilacinquecento. Il locale di Enzo, ben dieci metri quadri, è passato da quattro a novecento.

Stesso copione, furgoncino, trasloco, e cartello “affittasi” in bella vista.

E qui cominciano le sorprese. Ci si aspetterebbe che, a cifre così esose, ci voglia del tempo per trovare un poll… acquirente, e invece no. Una sfilata di pretendenti che si affannano a chiedere informazioni, anche cinque-sei al giorno. Tutti pakistani. Solo pakistani. Spesso con la bancarella degli occhiali falsi ancora a tracolla. Quanto affitto? Duemila e cinque con otto mesi di caparra? Interessante, prendo numero. Il locale più grande viene affittato all’istante. Al posto dei prosciutti una stesa di paccottiglia made in China, ispirata però al più trito e scadente folklore napoletano. Dopo qualche giorno è il turno del locale a fianco, quello che fu di Enzo. Con ancora negli occhi i tramonti di Lahore arriva il nuovo gestore e inizia ad armeggiare con la serratura. Lo saluto e mi presento, quindi gli chiedo: cosa venderai? Lui mi guarda serafico e indicando il negozio a fianco esclama: uguale.

Se oggi cammino per cinquecento metri nei dintorni di casa mia posso contare ben dodici negozi tutti identici, in vari casi uno di fianco all’altro, tutti gestiti da pakistani.

Sia chiaro. Non ho nulla contro i pakistani, mi sono simpatici, e se realmente avessero tutti fatto fortuna vendendo rose stantie e fossero da lì diventati imprenditori la cosa mi farebbe felice. Il fatto è che ho la leggerissima sensazione che non sia affatto così, e che questa sia semplicemente la nuova frontiera dello sfruttamento che i soliti noti operano nei confronti dei più deboli.

Come fanno a spendere queste cifre? Il guadagno su una calamita di plastica si aggira intorno ai cinquanta centesimi, se anche ne vendessero duecento al giorno l’utile sarebbe cento euro scarsi. Se pago duemila di affitto, più tasse, contributi e utenze, il calcolo è presto fatto, e i conti non tornano. Figuriamoci se poi a destra e sinistra ho due miei cugini che mi fanno concorrenza vendendo esattamente le stesse cose.

Emblematica a riguardo è la guerra di Pasquale. Pasquale è un abusivo storico. Da tempo immemore difende, con sprezzo del pericolo, il pezzettino di strada che si è ritagliato, fiero contro gli assalti dei battaglioni di sedie e tavolini che sconfinano come orde barbariche. Dopo anni e anni di lotta, l’autodeterminazione del suo pezzetto di marciapiede sembra finalmente raggiunta, ma dense nubi si profilano all’orizzonte…

Pasquale all’inizio vendeva deiezioni tecnologiche raccattate nei capannoni di Gianturco, ma con il boom turistico ha preferito virare verso più patriottiche calamite cinesi con scritto “Napoli”. Scelta vincente. Il fatturato cresce. Fino a quel maledetto giorno quando, proprio a fianco a Pasquale, apre Amir. Un negozio gigante, pieno di qualsiasi possibile gadget kitsch che la tradizione napoletana del glorioso proletariato mandarino sia in grado di produrre.

Comincia la guerra: Amir attacca con le calamite a un euro, i Pulcinella a due, e i corni a uno e cinquanta. Pasquale risponde con: calamite a settanta centesimi, Pulcinella uno e cinquanta e corni gratis! E qui arriva la sorpresa. Amir non replica, non se ne passa neanche per la capa. Nemmeno quando Pasquale posiziona i suoi espositori di magneti attaccati ai suoi, in modo da poter accalappiare con la sua arte oratoria chiunque si fermi a guardare l’esposizione di Amir e deviarlo verso la sua merce. Amir se ne frega. Lascia i suoi calzini di Maradona a cinque euro, anche se quelli di Pasquale ormai viaggiano intorno ai due. Anche quando piove non gli frega. Lascia tutto alle intemperie. Come se vendere non gli interessi proprio.

Un mio amico complottista sostiene che dietro a tutto ciò si nasconda una gigantesca operazione di riciclaggio, ma io non so. Mi limito a osservare i fenomeni… Altra domanda di quel tedioso del mio amico: come mai la grande industria cinese improvvisamente si concentra cosi potentemente nella produzione di corni, tamburelli, busti di Maradona e statue di Pulcinella? Chi la progetta tutta ‘sta munnezza? Nel Guangdong c’è un’improvvisa epidemia di napoletanite?

Di recente l’amministrazione comunale ha vietato l’apertura di nuove pizzerie e bar all’interno dell’area Unesco, ma sembra non accorgersi che la suddetta area sta diventando un’unica distesa di paccottiglia cinese “Napoli inspired”. Praticamente il centro storico sta espellendo buona parte dei suoi commercianti per finire nelle mani di un unico grande monopolista della calamita cinese con (sempre secondo il mio amico) migliaia di prestanome pakistani. Non erano meglio i tanto vituperati fritti?

Diciamolo, penso che il mio amico sia un gran rompipalle, ma forse non ha tutti i torti. Quando poi sul famigerato quotidiano cittadino leggo titoli entusiastici tipo “Napoli capitale delle nuove imprese” anche a me tremano le mani. (salvatore parlapoco)

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