“Heil Coca Cola”. Il passato di Berlino in un museo

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“Heil Coca Cola”. Il passato di Berlino in un museo
(disegno di enrico pantani)

Dal numero 13 de Lo Stato delle Città.

Quando arrivai a Berlino la prima volta, nel settembre del 1997, la Germania era stata riunificata da pochi anni e la città era un immenso cantiere. Stava prendendo forma quella che i media mainstream e il governo chiamavano Das Neue Berlin, la nuova Berlino. La Berlino nuovamente capitale del paese. La Berlino non più divisa dal muro. Quel muro che prese forma il 13 agosto del 1961 e che per quarant’anni è stato il simbolo della Guerra Fredda. Uno spazio divisorio che nel corso del tempo era diventato un apparato urbanistico fatto di filo spinato, torrette di sorveglianza e terra di nessuno. Uno spazio lacerante che segnava il passaggio fisico tra l’est e l’ovest della città, ma anche uno spazio simbolico tra due mondi, sue società, due stili di vita, due culture materiali.

Das Neue Berlin avrebbe cancellato ogni traccia del passato. O meglio, avrebbe gestito il passato in maniera funzionale alla nuova identità nazionale dei tedeschi finalmente riuniti, soprattutto sarebbe stata il nuovo orizzonte per quei sedici milioni di cittadini della Ddr che fino a quel momento avevano vissuto in un carcere a cielo aperto. In quel periodo la Repubblica Democratica Tedesca veniva considerata, in modo sprezzante, Stasiland, ovvero il paese della Stasi, la polizia per la sicurezza dello Stato che sorvegliava l’integrità politica, sociale e culturale della società tedesco-orientale. Era, in effetti, un dispositivo di sorveglianza e repressione capillare. L’apertura dei suoi archivi in seguito all’assalto dei cittadini nel novembre del 1989, aveva rivelato l’esistenza di una rete di informatori “non ufficiali” diffusa in tutti i gangli della società, una complicità con la Stasi che divenne un marchio di infamia per cittadini e cittadine di diversa estrazione sociale, dal semplice vicino di casa a figure apicali della controcultura. Fece scalpore il caso di Sasha Anderson, poeta della contestazione al realsocialismo, elemento di spicco della scena controculturale orientale che in realtà informava la Stasi in modo dettagliato ricavandone una serie di privilegi, primo tra tutti la possibilità di attraversare il muro senza difficoltà. Il drammaturgo Heiner Müller come la scrittrice Christa Wolf e altri eminenti esponenti della cultura ufficiale della Ddr furono accusati di essere stati tra i collaboratori. Fu creata una commissione governativa per l’analisi dei documenti della Stasi che si trasformò, in breve tempo, in un organo capace di assegnare patenti di integrità. Nessun funzionario pubblico della Ddr venne integrato nella nuova amministrazione unitaria. Venne smantellato il settore scolastico e accademico. Venne smantellato l’intero tessuto produttivo. Nel 1991 un milione di persone circa si ritrovarono disoccupate. Il patrimonio industriale e quello edilizio vennero privatizzati. A est, nei nuovi Bundesländer, la frustrazione sociale portava in molti a parlare di “annessione” della Ddr e non di riunificazione tedesca. Ecco, nei primi anni Novanta, si costruivano le fondamenta della profonda divisione che tutt’oggi separa i tedeschi dell’est da quelli dell’ovest. Fenomeno che oggi prende forma nei recenti risultati elettorali che hanno premiato in Turingia e Brandeburgo partiti di ispirazione nazionalista come l’estrema destra dell’AFD e la sinistra conservatrice del BSW.

Quella in cui mi ritrovai, insomma, era una città al centro di un processo di riscrittura della propria storia. I segni tangibili della Berlino capitale della Ddr venivano sistematicamente smantellati. L’edilizia storica del centro cittadino, fatta di vecchi palazzi malandati, veniva sanificata, ristrutturata, “colorata”. Grandi società immobiliari occidentali comprarono a prezzi stracciati interi palazzi per rivenderli – ristrutturati – ai nuovi cittadini della capitale. C’è da dire che negli ultimi anni della Ddr il centro cittadino si era andato progressivamente svuotando. Molti degli abitanti si erano trasferiti nei casermoni dell’edilizia popolare realsocialista in quartieri periferici e la nomenklatura viveva nelle villette di Pankow. I quartieri di Mitte, Prenzlauerberg e Friedrichs’hain erano il luogo della bohème tedesco orientale.

Die legende von Paul und Paula, di Heiner Carow del 1973, forse il film che meglio racconta la complessità della società tedesco-orientale, descrive con sguardo poetico le contraddizioni del processo di modernizzazione del socialismo tedesco insistendo, forse involontariamente, sulla trasformazione dell’abitare. Il desiderio di appartamenti funzionali e moderni che spingeva la popolazione ad abbandonare abitazioni sempre più fatiscenti che, dal canto loro, diventavano soluzioni abitative pressoché gratuite per quelli che lo Stato chiamava asociali e devianti.

Certo, quando sono arrivato io Das Neue Berlin non era ancora compiuta. Si respirava l’odore del carbone che bruciava nelle enormi stufe con cui, negli appartamenti non ancora risanati, ci si proteggeva dal freddo intenso dei mesi invernali; resistevano intere palazzine occupate che un po’ alla volta venivano sgomberate con la forza dalla polizia. Soprattutto gli affitti si mantenevano per lo più a prezzi ragionevoli. C’erano ancora locali informali dove si poteva bere e ascoltare musica o assistere alle più svariate performance artistiche. In poche parole Berlino non era cool, anzi. Era una città in trasformazione, certo a suo modo aggredita dal modello neoliberale ma ancora piena di pratiche e discorsi di resistenza e sperimentazione radicale politica, sociale e culturale.

Scelsi di prendere casa a est. Ero arrivato in città, infatti, per una ricerca di storia sociale sulla Ddr. Ero assetato di testimonianze sulla vita quotidiana. Frequentavo in maniera compulsiva i mercati delle pulci (all’epoca un’istituzione a Berlino) cercando oggetti e segni della Ddr. Incontravo lampade, libri, mobili dismessi, vestiti, dischi. Oggetti di un’archeologia contemporanea, simulacri di un paese che non esisteva più. Ero, in fin dei conti, curioso di capire come fosse stato possibile sopravvivere in un paese che veniva descritto come una distopia autoritaria. I libri e gli articoli specialistici che leggevo convergevano, con sfumature diverse, su una narrazione consolidata della Ddr come dittatura quasi peggiore del reich hitleriano. Un paese arido, popolato da una società immobile. Eppure, incontravo di continuo fonti, racconti e indizi che stridevano con il passato che veniva raccontato dagli storici e dall’industria culturale. Un certo stupore lo ebbi la prima volta che misi piede nella sezione dell’archivio federale di Stato dedicata alla documentazione della ex Ddr. Mi ritrovai a disposizione una massa ingente di documenti del governo e delle organizzazioni sociali. Potevo accedere a fonti ufficiali di ogni tipo senza nessuna limitazione. Ho passato diversi anni lavorando con quelle carte. Documenti ufficiali da cui, però, trasparivano elementi di un immaginario peculiare, così come di una cultura materiale decisamente originale. Trovai storie di libri di fantascienza, di avventura, di spionaggio, di western che venivano pubblicati o meno, e messi in circolazione in tutta la Ddr; trovai piani quinquennali per la produzione di alta moda realsocialista, indagini sui gusti della “gioventù”, pianificazione della produzione di rock realsocialista. Attraverso le relazioni delle forze dell’ordine emergevano anche i tratti delle controculture presenti a Berlino est e nelle altre città della Ddr. Mi resi conto di cosa fosse la criminalità, il contrabbando, la violazione delle regole del contratto sociale che reggeva la Germania dell’est.

Fuori dall’archivio, intanto, facevo incetta di riviste della FDJ, l’organizzazione giovanile della SED, il partito-stato che aveva governato fino al 1989, e di fanzine fotocopiate dei poeti beat di Berlino est; parlavo con decine di persone che mi riportavano racconti di vita quotidiana; vedevo i film della DEFA, la casa di produzione cinematografica della Ddr, scoprivo il western realsocialista. E intanto intorno a me si sviluppava una tendenza che prese il nome di Ostalgie, la nostalgia dell’Est. Cos’era? La riscoperta, soprattutto estetica, ma anche politica, del mondo materiale della Ddr. Da un lato gli oggetti, i vestiti, la musica, dall’altro l’affermazione elettorale, nei nuovi bundesländer, del partito Die Linke, costruito sulle ceneri della SED. Una nostalgia che si esprimeva anche in forme di rifiuto della società multiculturale, di diffidenza verso lo straniero. Una reazione al sentimento di spoliazione economica e culturale che serpeggiava nelle contrade orientali.

Ostalgie aprì un dibattito articolato nella comunità degli storici. Furono pubblicati articoli e saggi sulla storia sociale della Ddr che prendevano in esame la Alltagsgeschichte, la storia del quotidiano. Studi che posero la necessità di integrare la storia della Germania orientale all’interno della storia tedesca, non escludendola come infausta parentesi. Intanto Das Neue Berlin assumeva contorni sempre più definiti. Diventava sempre più una città da consumare. La scarna e cupa città divisa andava addobbata di attraenti destinazioni per i turisti.

Dopo un lungo periodo mi sono allontanato tanto da Berlino quanto dalla storia della Ddr. A Berlino sono tornato spesso, ma in verità più attratto dalla sua metà occidentale, dai movimenti autonomi negli anni Ottanta e Novanta radicati a Kreuzberg, dalla mescolanza culturale che trasformava la capitale in una metropoli dapprima unica poi sempre più schiacciata sui palinsesti urbani delle grandi città occidentali.

Quando ci sono tornato di recente per un periodo abbastanza lungo non ho più trovato Das Neue Berlin bensì il suo superamento. Una città del tutto anestetizzata. Benestante, giovane e prevalentemente bianca. Ma soprattutto ciò che mi ha colpito è stato l’uso della storia come attrazione turistica. Simbolo di tale fenomeno è senz’altro l’edificazione dell’antico castello federiciano settecentesco al posto della VolksKammer (il parlamento della Ddr) non lontano dalla centrale Alexander Platz. Un edificio ricostruito in pochi anni a ridosso delle architetture moderniste della vecchia Berlino est. Un simulacro dell’intenzione di scrivere una storia tedesca condivisa in cui l’Est va neutralizzato attraverso una musealizzazione progressiva e diffusa nel territorio urbano.

Innanzitutto la città è stata dotata di infrastrutture esperienziali, ovvero luoghi e percorsi che offrono al turista una forma di intrattenimento basata sull’idea di vivere per un momento il passato in maniera diretta. Da un lato troviamo il Trabant Safari, ovvero un giro della città a bordo delle auto tipiche della Ddr (motori a due tempi estremamente inquinanti per altro) che tocca i luoghi più significativi della Berlino divisa. Dal check point Charlie (la stazione di confine tra le due Berlino controllata dai militari Usa), dove è anche possibile visitare una mostra fotografica e comprare souvenir a tema; la torre della televisione al centro dell’Alexander Platz; pezzi di muro superstiti e l’immancabile museo della Stasi. Dall’altro troviamo tour in bicicletta (più ecologici) che portano i visitatori alla scoperta dell’archeologia industriale della città, le fabbriche di origine ottocentesca come la AEG le cui strutture puntellano ancora diversi quartieri a ovest come a est.

Altro tipo di esperienza, stavolta più statica, è data dai musei tematici. Il più stucchevole è il Berlin Ddr Museum, uno stanzone sito nella zona divenuta il centro turistico della città, in cui al modico prezzo di venti euro, viene offerta la possibilità di immergersi in una Ddr virtuale. Attraverso filmati, ricostruzione di ambienti e teche con gli oggetti più disparati si entra in una sorta di zoo in cui curiosare nella vita quotidiana di un paese sotto scacco della Stasi e dell’ideologia comunista. Un museo “per famiglie” che mette in mostra la ricostruzione di un paese che forse non è mai esistito. A fare da contraltare, troviamo un altro tipo di musealizzazione della Germania dell’est. La mostra permanente sulla vita quotidiana in Ddr ospitata dal Museo della Kultur Brauerei nel quartiere orientale di Prenzlauerberg. Qui il rigore scientifico è di altra caratura, anche se il modo di ricostruire gli ambienti (dalla fabbrica al salotto dei poeti della contestazione) resta quello imperante. Nella stessa struttura è ospitata per un breve periodo un’altra mostra, dedicata alla scena del Rock Metal della Ddr con tanto di ricostruzione dello studio di registrazione della band più famosa degli anni Ottanta. Qui la Ddr appare una società decisamente più complessa e articolata, emergono sfumature diverse del quotidiano, non ci sono animali da osservare ma il tentativo di restituire alle persone del passato la propria dignità.

E sempre in tema Ddr troviamo, poco distante, il monumento della Bernauer Str. La strada dove sono avvenute il maggior numero di fughe (e vittime) dall’est verso l’ovest subito dopo la costruzione del muro. Qui il muro e i suoi dispositivi di sorveglianza sono stati mantenuti nella loro forma originale, non si è ricostruito ma si è conservato. Una mostra dettagliata, inoltre, documenta tutte le evoluzioni architettoniche del Muro. L’enfasi è sul dispositivo di sorveglianza della dittatura.

Un modello mutuato dalla mostra Topographie des Terrors, nata alla fine degli anni Settanta e resa permanente a Berlino ovest nella zona in cui sorgevano i ministeri del Reich da cui si dirigeva l’Olocausto e la guerra. Sulle vecchie fondamenta una serie di pannelli ripercorre l’ascesa del nazismo e termina, in una strana continuità, con una breve storia della Ddr.

Ma Berlino, oltre a essere una città divisa, è stata durante la Guerra Fredda la capitale delle spie. A ricordarcelo troviamo il Deutsches Spionage Museum in cui è possibile utilizzare direttamente molti dei trucchi utilizzati dai servizi segreti per spiare gli avversari (reali o supposti). I visitatori del museo possono calarsi per qualche ora nei panni delle spie che hanno alimentato tanto la storia che la letteratura della Guerra Fredda; aprono lettere con il vapore, montano un microfono e ascoltano di soppiatto le parole pronunziate nella stanza a fianco, scoprono doppifondi in valigette di pelle. Tecniche utilizzate da tutti i lati, ma grande risalto è dato, ovviamente, al lavoro della Stasi.

Ospitato in una vecchia struttura tedesco-orientale dedicata all’ascolto delle onde radio del nemico, il museo è una delle casematte dell’uso pubblico della storia e del passato. I turisti ripartono portando con sé un’idea ben precisa di quanto sia avvenuto in passato nella capitale tedesca; consumano una narrazione costruita da elementi selezionati, riportano con sé souvenir di una vittoria del bene sul male. La musealizzazione e commercializzazione della Ddr risignifica un passato a senso unico, svilisce la complessità che ha determinato una cesura storica fondamentale come il crollo del Muro e il collasso del gigante sovietico. I safari in Trabant, la ricostruzione dozzinale di ambienti tipici della Ddr ridicolizzano il passato, trasformano oggetti ed esperienze reali di un passato recente in elementi stereotipati così come avviene ad altre latitudini investite dal turismo di massa. In assenza di vicoli caratteristici, di folklore popolare, di monumenti e opere d’arte da blindare con biglietti a pagamento, il fulcro del consumo è un oggetto immateriale, un folklore inventato, o meglio, una cultura materiale da esporre in vetrina, un’esperienza di quotidianità lacerante da dare in pasto a file di turisti pronte a digerire le cicatrici della Storia come un panino imbottito.

I riverberi del consumo della storia, li ritrovo passeggiando per le strade di Kreuzberg, quartiere ribelle della Berlino occidentale. Non assumono la forma di mostre preconfezionate ma, al contrario, di una radicale trasformazione dei luoghi, di una lenta ma inesorabile sostituzione di popolazione. Hipster, consumo di prodotti biologici, bar e ritrovi à la page, affitti saliti alle stelle laddove le case erano per lo più occupate. Un multiculturalismo occidentale, bianco e benestante ha sostituto la miscela di lingue e culture che abitava lo stesso spazio. La ricerca dell’esperienza oltrepassa il momento, diventa quotidiano. Si cerca l’ebbrezza di una città scomparsa, trasformata quasi in un parco tematico di una controcultura anestetizzata, divenuta, per la gran parte, un dispositivo di intrattenimento. Creatività da commercializzare, consumare. Processo che, senza dubbio, incontra resistenze, ostacoli e che, tuttavia, sembra essere irresistibile, irrefrenabile.

Se nella Das Neue Berlin di fine anni Novanta la storia era un oggetto ingombrante, un materiale vischioso, un peso da cancellare, nella Berlino contemporanea sembra essere diventata un utensile liquido, malleabile, da modellare, adattare ai gusti variegati dei consumatori. Certo, la ricerca professionale può ancora contare sul patrimonio archivistico ingente degli archivi di stato, municipali e perfino di quartiere. Ma è il suo uso pubblico che sembra essere stato del tutto ribaltato. Discorsi sbrindellati sull’identità nazionale sono ormai il carburante per visioni politiche identitarie che ripropongono in modo strumentale la passata divisione tra Est ed Ovest. L’annessione della Ddr o altrimenti la riunificazione tedesca ha sepolto qualsiasi opportunità di prospettiva cosmopolita, multiculturale, favorendo, al contrario una polarizzazione sociale, economica e razziale. Come se le diverse componenti che abitano la città diventassero sempre di più comunità separate. Turchi e arabi, classe media globale e benestante, proletariato orientale, poveri ed esclusi. Ognuno circoscritto nel proprio spazio urbano. E finalmente, dopo mezzo secolo, anche Berlino ha un suo centro cittadino riconoscibile. Vuoto, silenzioso. Musei e ministeri ne hanno ridefinito i contorni abitati da funzionari e turisti che si cibano di street food sofisticato.

Heiner Müller, nel suo Hamletmaschine del 1977, aveva immaginato lo scenario di macerie: “Per le bugie che vengono credute/ Da coloro che le raccontano e da nessun altro Nausea/ per le facce dei facitori segnate/ Dalla lotta per i posti i Voti i Conti in Banca/ Nausea Carro falcato lampeggiante di battute/ Vado per strade per magazzini per facce/ Con le cicatrici della battaglia per il consumo Povertà/ Senza decoro Povertà senza dignità/ […] Risa di Pance Morte /Heil COCA COLA”.

Il filo spinato che separava la città è diventato invisibile. (-ma)

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