Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa

ci-siamo-cancellate?-riflessioni-a-partire-da-un-libro-sulla-giustizia-trasformativa
Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe)

Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.

Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown.

Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.

Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).

Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione.

Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?

Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).

Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)

Related Post