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Negli ultimi giorni Apple ha importato negli Stati Uniti dall’India circa un milione e mezzo di iPhone, nel tentativo di contrastare i nuovi dazi imposti da Donald Trump in particolare in Cina, dove la società produce la maggior parte dei propri smartphone. Apple non ha confermato la circostanza, ma secondo fonti consultate da Reuters da fine marzo almeno sei aerei cargo con una capacità di 100 tonnellate ciascuno hanno raggiunto i centri di smistamento statunitensi dall’India.
Trump sostiene che Apple potrebbe risolvere il problema producendo gli iPhone direttamente negli Stati Uniti, ma esperti e analisti hanno spiegato che allo stato attuale delle cose è impossibile farlo. La Cina è solo l’anello più in vista di una delle più complesse catene di distribuzione nella storia dell’industria, che rende possibile la costruzione ogni anno di centinaia di milioni di iPhone con materie prime e componenti provenienti da molte parti del mondo.
Prima ancora che Trump imponesse il 145 per cento di dazi alla Cina, e che questa rispondesse arrivando al 125 per cento, erano circolate stime sul potenziale aumento del prezzo degli iPhone negli Stati Uniti. Era stato ipotizzato un prezzo di quasi 1.150 dollari rispetto ai 799 per un iPhone 16 e la possibilità che modelli con più funzionalità, come gli iPhone 16 Pro Max, potessero raggiungere i 2.300 dollari. Appare improbabile che si arrivi a tanto, anche perché molte persone deciderebbero probabilmente di acquistare smartphone più economici, ma la soluzione al problema non potrebbe essere l’avvio della produzione negli Stati Uniti, almeno nell’immediato futuro.
La produzione di un singolo iPhone è uno sforzo internazionale, come spiega la stessa Apple nella parte del proprio sito dedicata alla sua filiera con un motto inequivocabile: «Progettati da Apple in California. Costruito da persone, ovunque».
I metalli necessari per produrre alcuni componenti dei dispositivi (oro, tungsteno, stagno e tantalio) provengono da circa 80 paesi con oltre 200 fornitori, dei quali solo il dieci per cento ha sede negli Stati Uniti. I componenti veri e propri sono invece prodotti da aziende di Singapore, Taiwan, Vietnam, Malaysia, Filippine, Thailandia, Corea del Sud, Giappone, Cina e India, solo per citarne alcuni. Anche in questo caso alcuni prodotti sono realizzati negli Stati Uniti, ma sono una quantità marginale rispetto a tutto il resto.
Le liste variano a seconda dei modelli di iPhone e dei periodi, ma i fornitori asiatici sono sempre presenti. I processori che Apple progetta e sviluppa sono realizzati a Taiwan, gli schermi in Corea del Sud, i sistemi di memoria in Giappone, così come spesso i componenti principali delle fotocamere, mentre le batterie hanno origine cinese. Questa suddivisione è in parte dovuta all’esperienza che è stata maturata nei singoli paesi su un dato tipo di componente, magari per via di come si sono evoluti particolari distretti industriali localmente.
La Corea del Sud è uno dei più grandi produttori di schermi, grazie alla presenza di Samsung e di LG, che forniscono quindi i loro display ad Apple. Per lungo tempo le fotocamere sono state invece fornite dalla giapponese Sony. A loro volta queste aziende fornitrici utilizzano componenti provenienti da altre parti del mondo, in un intreccio articolato di importazioni ed esportazioni di materiale.
(EPA/RITCHIE B. TONGO via ANSA)
Schermi, fotocamere, moduli per il 5G e il WiFi, memorie e il resto dei componenti confluiscono poi in Cina, dove gli iPhone vengono assemblati in grandi stabilimenti gestiti per lo più da Foxconn, uno dei principali partner commerciali di Apple. Le fabbriche cinesi di questo tipo sono di frequente paragonate a intere città: ci lavorano centinaia di migliaia di persone, che hanno il compito di mettere insieme i pezzi che formeranno i dispositivi di Apple (e di altre aziende tecnologiche). Le condizioni di lavoro comprendono lunghi turni e poche possibilità di riposo e di svago, anche se negli ultimi anni sono stati fatti dei progressi per rendere meno alienante la situazione. In alcuni impianti negli anni passati erano stati registrati alti tassi di suicidi, ma avere notizie aggiornate e affidabili non è sempre semplice, anche a causa dello stretto controllo sulla stampa da parte del governo cinese.
Mentre la costruzione dell’involucro dei telefoni e di altre parti è in buona parte automatizzata – sia per questioni pratiche sia perché richiede grande precisione – l’assemblaggio è ancora spesso manuale, perché alcuni componenti sono troppo piccoli per essere installati da un robot. Apple ha intenzione di dimezzare la quantità di persone che lavorano all’assemblaggio entro il 2030, ma la società aveva già provato in passato a cambiare le cose senza raggiungere grandi risultati.
Le difficoltà sono dimostrate dallo scarso successo di un progetto teoricamente più semplice, cioè lo smontaggio in modo automatico dei vecchi iPhone da riciclare. Apple lo aveva annunciato alcuni anni fa, ma è emerso che la percentuale di telefoni smontati automaticamente è marginale e che è comunque necessario l’intervento umano, soprattutto per rimuovere le batterie per evitare il rischio che si danneggino andando a fuoco. Gli iPhone che non vengono smontati vengono per lo più triturati, con sistemi per separarne i metalli recuperabili che vengono poi fusi e riutilizzati.
L’intera filiera produttiva di Apple impiega all’incirca 1,4 milioni di persone in oltre 320 società fornitrici. Immaginare di impiegarne la maggior parte negli Stati Uniti sarebbe impensabile, sia per i maggiori costi della manodopera sia per questioni di accessibilità alle materie prime. Un’eventuale fabbrica di iPhone negli Stati Uniti dovrebbe comunque far arrivare i componenti dall’Asia e dagli altri paesi in cui ha fornitori, che ricadrebbero sotto i dazi dell’amministrazione Trump. La costruzione dello stabilimento richiederebbe inoltre anni per essere realizzata e probabilmente avrebbe un altro problema non indifferente: la mancanza di personale.
Già nel 2017, il CEO di Apple, Tim Cook, aveva chiarito in un’intervista che la forte dipendenza della sua azienda dalla Cina – così come quella di molte altre aziende statunitensi – non era solo una questione di costo della manodopera:
La Cina ha smesso di essere il paese del lavoro a basso costo diversi anni fa. Da un punto di vista della catena di distribuzione il motivo per cui facciamo riferimento alla Cina è la competenza, e la quantità di competenze in un singolo luogo. […] Negli Stati Uniti potresti organizzare un incontro di ingegneri di macchine utensili e non sono certo che riusciremmo a riempire una stanza. In Cina potresti riempire diversi campi da football.
Trovare personale specializzato a sufficienza negli Stati Uniti sarebbe difficile, come si è visto anche nei pochi casi di aziende di semiconduttori che hanno provato ad aprire stabilimenti negli Stati Uniti, finendo col chiamare dall’Asia persone con una formazione adeguata. Nonostante le evidenti difficoltà, nei giorni scorsi alcuni importanti esponenti dell’amministrazione Trump hanno sostenuto che grazie ai dazi milioni di nuovi posti di lavoro potranno essere creati da Apple negli Stati Uniti. In un’intervista televisiva il segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha detto: «L’esercito di milioni e milioni di persone che avvitano minuscole viti per fare gli iPhone, proprio questo tipo di cose tornerà in America» aggiungendo poi che quell’attività sarà automatizzata, anche se a oggi non c’è possibilità di assemblare automaticamente uno smartphone.
Come si è visto in Cina, dove sono stati condotti diversi esperimenti fallimentari, le difficoltà con l’automazione non sono solo legate all’assemblaggio di parti minuscole, ma anche alla frequenza con cui vengono cambiate le linee di produzione. Apple produce un nuovo iPhone ogni anno e per ogni modello offre più versioni. Negli anni in cui i cambiamenti al design sono più radicali è necessario rivedere buona parte dei processi produttivi: questi cambiamenti richiedono una grande flessibilità che al momento non può essere raggiunta nelle normali catene di montaggio. Come ha spiegato un esperto a Bloomberg: «Progetti il dispositivo, ricostruisci la fabbrica, e poi hai solo sei mesi per venderlo. Il ritmo con cui cambiano le cose rende difficile portare dell’automazione».
(EPA/YM YIK via ANSA)
Apple negli ultimi anni ha venduto più di 220 milioni di iPhone annualmente, offrendo almeno sette modelli diversi, venduti in diversi colori e con varie capacità di memoria. Ogni combinazione rende più articolata la produzione e la gestione dei prodotti, che vengono venduti poco dopo la produzione per ridurre al minimo i tempi di magazzino. La società non fornisce informazioni su quanti iPhone vende nei singoli paesi, ma le stime concordano su circa 50 milioni di telefoni venduti solo negli Stati Uniti ogni anno. Evitare completamente che questi provengano dalla Cina potrebbe rivelarsi difficile nei primi tempi, anche se Apple sta cercando da tempo di diversificare la produzione, con nuove fabbriche in India.
Si stima che l’85-90 per cento degli iPhone venduti provenga dalla Cina, con il 10 per cento restante quasi interamente dall’India (alcuni modelli più economici sono prodotti in Brasile). Apple nelle ultime settimane ha fatto aumentare la produzione in India, ma difficilmente potrà produrre più di 35 milioni di nuovi telefoni all’anno negli impianti indiani. La società potrebbe quindi avere bisogno di vendere comunque degli iPhone importati dalla Cina, forse riducendo il proprio margine o rivedendo nel complesso i prezzi richiesti per i propri modelli negli Stati Uniti.
Come per altri prodotti provenienti da alcune parti del mondo, a causa dei dazi le persone negli Stati Uniti potrebbero trovarsi a pagare molto di più per un iPhone rispetto a chi li acquista in Canada o in Messico. Si formerebbe probabilmente un mercato grigio, con il trasporto e la vendita degli iPhone per vie non ufficiali e più convenienti, con ulteriori danni per il mercato interno statunitense.