
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia. «Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto “Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato. Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia, critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo, venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio. Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso. Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno, ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano. «Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro, proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere: ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate, Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però, un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie, non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione, anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare. Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via, che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così, con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale, passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire: prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi, lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid. Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani, volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto, quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale. Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione, ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia, bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa. Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)