C’è una città che si mostra per ciò che è, e un’altra per ciò che vuole sembrare. La mia mi sembra sempre più un collage di vecchi giornali e ritagli sparsi, dentro il quale ognuno cerca il suo posto. Questa operazione significa, però, anche restarsene un po’ ai margini a osservare. Di notte meglio che di giorno.
La movida del centro di Napoli si muove tra le luci fredde delle insegne dei locali e le strade strette che costeggiano i vecchi palazzi. Mi siedo al tavolino di un bar in uno dei vicoletti più nascosti dei Quartieri. Il chiacchiericcio delle persone si mescola al rumore dei motorini e all’odore di spritz appena versati. Ragazzi con qualche battuta ci provano con le turiste: «È la prima volta che siete a Napoli?», chiede uno. Un altro senza perdere tutto quel tempo, gli sorride e dice: «You’re beautiful!».
Nicola ha ventiquattro anni, è uno studente universitario di San Giuseppe Vesuviano, single e senza lavoro fisso. Parla di sé con naturalezza, come se fosse abituato a raccontarsi. «Esco più per la compagnia che per il piacere di andare in un posto preciso – mi dice –. Certo, abbiamo i nostri locali, quelli dove ci sentiamo a casa, ma a Napoli è facile trovare qualcosa di interessante. Quartieri Spagnoli e centro storico, ci si muove in base a chi trovi in giro. A un certo punto ci siamo spostati qui perché anche le persone che conoscevamo, i nostri amici storici, in provincia, hanno iniziato a fare lo stesso. A San Giuseppe non c’è molto da fare».
Il suo legame con Napoli si è rafforzato dopo la pandemia. Dopo essersi sentito intrappolato per mesi ha cominciato a spostarsi, trovando in città «un senso di libertà che non avevo mai provato prima: è stato come se una casa crollata fosse stata sostituita da una nuova».
Quando Nicola parla della sua esperienza in città, lo fa quasi sempre sottintendendo la differenza rispetto alla realtà del suo paese. Napoli è il luogo delle opportunità, dei legami facili, dei luoghi che non tradiscono. «È bella perché è stimolante, succedono cose. C’è una fauna umana variegata, puoi trovare chiunque, ed è questo che a me piace, la sua imprevedibilità. E poi non serve spendere tanto per divertirsi: con venti euro fai una serata più che dignitosa. La città ti sfotte ma non ti giudica: se facessi in provincia quello che faccio a Napoli sarebbe diverso, mi sentirei sotto esame».
Con Nicola finiamo a parlare della Fomo (Fear of missing out), parola che descrive uno stato psicologico non raro tra i ragazzi, ovvero la paura di “perdersi qualcosa di importante”, eventi sociali, esperienze. I social network hanno un ruolo di primo piano in questo, poiché l’effetto di ogni sensazione viene amplificato dal confronto con quello che fanno gli altri. «Oggi ho imparato a scegliere: se non ho voglia di uscire rimango a casa».
Anche l’appartenenza, l’intensità con cui ci si sente parte di qualcosa, sembra in cambiamento. Non sempre ci si accorge, però, che per sentirsi dentro la città – fatta anche dei suoi eventi e i suoi riti – c’è un prezzo da pagare: partecipare. Ne parlo con Alessio, ventidue anni, che si è laureato con una certa velocità e oggi vive e lavora nel centro storico. Lo incontro in piazza San Domenico Maggiore, dove abita. Intorno a noi la gente si muove freneticamente tra bar affollati e localini ma è come se ognuno restasse in un proprio piccolo angolo. Sembra più difficile attaccare bottone con qualcuno. «Scendo (è così che si dice a Napoli per far capire che si sta uscendo di casa per divertirsi, o riempire il tempo, ndr) raramente la sera, al massimo una o due volte a settimana. Prima anche tre o quattro volte, ma ora ho meno voglia, mi sembra non ci sia molto da fare. Cerco posti nuovi, ma finisco sempre negli stessi luoghi, anche perché i posti si assomigliano uno con l’altro». Anche sulle persone che prima incontrava, ha cambiato prospettiva: «Prima mi sembrava bello poter incontrare la gente sempre diversa che attraversa il centro, ma ora mi rendo conto che siamo tutti uguali».
Alessio ritorna spesso sull’idea che non partecipare ad alcuni eventi importanti, o non far parte di alcuni giri, sebbene allargati, ti releghi a una sorta di invisibilità, dove la tua esperienza viene percepita come “opaca” rispetto a chi invece ci è dentro fino al collo. «A volte uscire la sera ci sembra più un obbligo che un piacere, un dover performare più che un momento di svago».
La trasformazione che ha subito la vita notturna napoletana non è un fenomeno improvviso. È il risultato di un graduale processo che, con l’esplosione del turismo di massa e la consacrazione dell’immagine “pop” della città, ha modellato una esteriorità sempre più attraente e superficiale. Questo processo ha avuto bisogno di tempo (è evidente se ci si fa raccontare com’erano certi luoghi di notte quindici o vent’anni fa), ma è diventato palese negli ultimi cinque o sei anni, con l’imposizione di una Napoli “espositiva”, crocevia di mode e tendenze che chi la attraversa non può ignorare.
Questa trasformazione è visibile tanto di giorno quanto di notte, seppure con sfumature diverse. Napoli è oggi una città che respira a un ritmo frenetico. Le strade sono animate dai turisti che si mescolano ai napoletani. Gli studenti camminano verso l’università velocemente tra bancarelle di calamite e odore di frittura. Si fanno strada tra gruppi di persone che scattano foto, mentre a qualsiasi ora le pizzerie traboccano di gente, il rumore dei clacson e la puzza di marmitta si mescolano con il rosso dei bus City Sightseeing. Non è solo l’aspetto della città a essersi trasformato, ma la sua mappa urbana, la sua economia, le relazioni. Una pressione invisibile ha finito per influenzare le scelte quotidiane delle persone (dove abito, che posti frequento, come spendo il mio stipendio) e le identità stesse, comprese quelle di chi vive la notte.
Gli eventi serali, per esempio, vengono venduti come accessibili e inclusivi, ma è quasi un’operazione di empathy-washing. I locali notturni, infatti, dove anche lo spazio vitale si paga in termini economici, si rivolgono a un pubblico preciso, ammantando di un senso di comunità una realtà che spesso ti esclude se non ne fai già parte (non è solo questione di poterti permettere economicamente un certo tipo di esperienza, ma anche del tuo retroterra culturale). I profili social di questo o di quel bar parlano di “famiglia”, di “comunità”, ma l’immagine esterna è più quella di gruppetti e sette che non si incontrano mai.
Per Alessio è una questione di ripetitività delle pratiche, di un mondo che non lascia più spazio all’imprevisto, di reti sociali e spazi in cui ci si impiglia, nascondendo un vuoto di connessioni reali. Parlando un po’ qua e là con i miei coetanei, la sensazione è quella di un’adesione a un gioco di società che implica un riconoscimento, che diventa quasi una valuta, un mezzo per sentirsi validi e validati. Il prezzo è dover essere sempre al passo con gli altri, o forse anche più avanti, oltrepassandoli come se anche uscire fuori per una birra fosse una competizione.
A un certo punto di questo lavoro, per esempio, ho cominciato a riflettere sulle immagini della notte, sulle locandine e i manifesti che provano a venderci le esperienze da consumare, modellando intorno a prodotti commerciali (la vendita dell’esperienza) i nostri desideri. La grafica e la pubblicità degli eventi della movida svolgono un ruolo fondamentale: le immagini e i colori, il tono, la scelta di simboli e icone contribuiscono a costruire una proposta definita per questo o quel gruppo. Se quelle che reclamizzano serate nei centri sociali, grandi punti di aggregazione della zona, richiamano un messaggio politico e si identificano per un’impronta visiva semplice, con illustrazioni chiare e immediate, le serate di localini aggregatori di una gioventù con velleità artistiche o intellettuali si distinguono per varietà di grafiche e stili visivi. Si privilegia l’estetica ma il messaggio e le info risultano più difficili da interpretare: la copertura visiva prende il sopravvento, facendo apparire l’evento più come una questione stilistica che un’occasione di incontro. Agli antipodi di questo approccio ci sono poi le locandine dei locali (per lo più discoteche) della provincia: più semplici, con fotografie di dj o di vecchie serate: sono chiare, dirette, puntano a mostrare l’esperienza, perché contano in fondo anche loro sull’attrattività per un pubblico ben definito. Diversa è infine la filosofia delle locandine tipiche degli eventi con secret location (ti prenoti, lasci il numero di telefono, qualche ora prima ricevi un messaggio con il luogo e ti presenti). Richiamano vagamente la cultura dei rave, le grafiche sono accattivanti ma semplici, i testi criptici e le informazioni arriveranno in un secondo momento. L’idea di “segretezza” è il punto di forza di questo tipo di esperienza: crea un’aspettativa e un senso di curiosità che fanno desiderare l’evento ma anche lì, per quanto una proposta del genere può risultare eccitante per chiunque, si tende ad arrivarci tramite un contatto, una persona che in qualche modo “bazzica” quel mondo, quei “giri”.
L’analisi dell’architettura visiva che ci guida nella scelta di un’esperienza notturna meriterebbe spazi e tempi più approfonditi. Mentre lavoravo a quest’inchiesta, però, sono rimasta affascinata dal rapporto tra l’estetica e la creazione di una realtà stratificata, dove l’immagine ha un ruolo nel definire il rapporto tra gli individui e la città. Mi rendo conto di stare anche io dentro caselle e idee standardizzate che provengono da scelte di mercato e da rappresentazioni costruite ad hoc. Studentessa, giornalista, ricercatrice. Ma in fondo consumatrice senza possibilità di scelta della città come prodotto. (serena bruno)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta