Per qualcuno condividere sempre la propria posizione è diventato normale

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Per qualcuno condividere sempre la propria posizione è diventato normale

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Quando fu introdotta da Apple nel 2009, l’applicazione “Trova il mio iPhone” sfruttava la geolocalizzazione per aiutare gli utenti a ritrovare i propri dispositivi smarriti. In breve tempo l’azienda comprese che la geolocalizzazione dei telefoni poteva essere usata per seguire con una certa accuratezza anche gli spostamenti dei loro proprietari, e fu così che nel 2011 debuttò “Trova i miei amici”, che in breve tempo diventò una delle applicazioni per la condivisione della posizione più utilizzate in assoluto, soprattutto negli Stati Uniti.

Dal 2019 Apple ha accorpato le due funzioni in una sola applicazione, che in Italia si chiama “Dov’è”. Nel frattempo, condividere senza interruzioni la posizione in tempo reale con amici e familiari è diventata un’abitudine molto diffusa, anche in Italia, soprattutto tra le persone più giovani, che spesso la vedono come un modo per esprimere affetto e intimità.

In molti casi, però, non è facile riconoscere e distinguere le motivazioni che spingono qualcuno a voler avere sempre accesso alla nostra posizione: una maggiore connessione può trasformarsi in una forma di controllo più o meno consensuale e la condivisione della posizione rischia di diventare un modo per sopperire alla mancanza di fiducia e di dialogo all’interno delle relazioni.

Sull’estensione del fenomeno non ci sono molti dati: per quanto riguarda gli Stati Uniti, secondo una ricerca di The Harris Poll, una grossa società che si occupa di sondaggi, nel 2022 quattro persone su cinque condividevano abitualmente la loro posizione e poco meno di una su cinque la condivideva tutto il tempo; mentre per il resto del mondo la diffusione dell’abitudine a condividere la geolocalizzazione si può desumere da quanto vengono scaricate le applicazioni sviluppate appositamente per quest’ultimo scopo. Eccetto Dov’è, che è preinstallata nei dispositivi Apple e di cui non si conoscono i dati di utilizzo, alcune delle più popolari sono Life360, Google Family Link e Find my kids, che nel Google play store hanno decine se non centinaia di milioni di download in tutto il mondo.

L'interfaccia dell'app Life360

L’interfaccia dell’app Life360

Per quanto riguarda le ragioni alla base di questo comportamento, uno studio dell’università di Parigi Nanterre descritto sulla rivista The Conversation ha evidenziato che in molti casi (in particolare per i genitori) la condivisione della posizione serve a soddisfare un bisogno essenzialmente psicologico: il desiderio di sentirsi al sicuro e di ridurre l’imprevedibilità degli eventi. Questo perché sapere sempre dove si trovano le persone care offre una sensazione di controllo e rassicurazione, permettendo di sapere dove raggiungerle in caso di pericolo o necessità.

In Italia condividere la posizione in tempo reale è un’abitudine che si sta diffondendo soprattutto in famiglia, spesso sotto la spinta dei genitori. Alcune app come Google Family Link, pensate tra le altre cose per permettere di sorvegliare e controllare i dispositivi elettronici dei figli, danno la possibilità di monitorare la loro posizione in tempo reale e di attivare a distanza la funzione di geolocalizzazione anche senza il loro consenso.

Secondo Cosimo Di Bari, professore di pedagogia all’università di Firenze e autore per la rivista Uppa magazine, specializzata nei temi della genitorialità e dell’infanzia, spesso i genitori chiedono ai figli di farsi geolocalizzare dal momento in cui viene regalato il primo telefono, cosa che tendenzialmente accade intorno ai nove o ai dieci anni.

«La volontà di avere la posizione in tempo reale dei figli sempre a portata di mano nasce come un desiderio del genitore di avere tutto sotto controllo», dice Di Bari; ed è un desiderio che dipende da tanti fattori, in particolare dalla percezione che i pericoli della vita fuori da casa siano sempre maggiori. Secondo Di Bari questo accade perché in molti casi i genitori confondono i rischi con i pericoli: i pericoli nella vita esistono, ma non sempre comportano grandi rischi, e affrontare i rischi può aiutare i figli a crescere e a superare le proprie paure.

Questo comportamento da parte dei genitori può diventare un problema se continua anche quando i figli diventano adolescenti: «in questa fase i ragazzi cercano autonomia, e anche se l’idea è quella di sentirsi più sicuri si rischia invece di aumentare la fragilità, togliendo fiducia», dice Di Bari, che sostiene che soprattutto a una certa età la condivisione della posizione rischia di sostituire un compito che invece spetterebbe al dialogo e che non dovrebbe trasformarsi in una forma di controllo o addirittura di sorveglianza. Non è detto peraltro che conoscere la posizione di una persona comporti un aumento della sua sicurezza, e anzi può generare ansia inutile in caso di funzionamento impreciso dei dispositivi, o più banalmente quando il telefono geolocalizzato si scarica.

Per tutti questi motivi, da un punto di vista pedagogico condividere sempre la posizione rischia di togliere fiducia ai figli, può diventare oppressivo, e non li aiuta a conoscere le proprie paure né ad affrontare da soli i rischi della vita. E allo stesso tempo, può abituarli all’idea che controllarsi reciprocamente tra persone che si vogliono bene sia normale, col rischio che ripropongano lo stesso comportamento con i propri partner.

– Leggi anche: Non possiamo più fare a meno di sapere dove sono i nostri pacchi

Nelle relazioni di coppia infatti la geolocalizzazione è comune quando esistono delle insicurezze legate a vere o supposte attività segrete del partner. La condivisione della posizione può essere utilizzata anche in modo violento, come uno strumento di controllo in situazioni dove vengono commessi degli abusi. Secondo Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate (CADMI), un’associazione che offre sostegno alle donne vittime di violenza, capita sempre più spesso che le donne che si presentano al centro antiviolenza per chiedere aiuto siano geolocalizzate dal proprio partner.

«Non abbiamo dei dati per verificarlo, ma in base alla nostra percezione l’uso della geolocalizzazione come strumento di controllo nei confronti delle donne da parte di un uomo maltrattante è un fenomeno in crescita, soprattutto tra gli under 30», dice Carelli. Al CADMI, nel momento in cui si presenta una donna per segnalare degli abusi o delle violenze, si verifica subito se ha la posizione condivisa, innanzitutto per proteggere la sua scelta di chiedere aiuto.

Le operatrici hanno anche notato come, in certi casi, le donne assistite non siano subito pronte a definire la costante geolocalizzazione come una condizione che limita la loro libertà e la loro autonomia di spostarsi dove vogliono, in riservatezza. «Magari segnalano altre cose, ma non questa», dice Carelli, che ritiene che questo comportamento possa derivare da una normalizzazione della condivisione dei dati nelle coppie nell’era digitale: «insieme alla posizione in tempo reale viene condivisa la password del telefono o dei social, e questo viene interpretato come il segno di un legame forte, dove condividere tutto significa avere maggiore fiducia».

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