Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri

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Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri
(archivio disegni napolimonitor)

Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali.

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Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.

I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.

Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti. Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.

La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.

Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp. Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità. Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo – mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con lo stato, né con le Br”.

A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è troppo grande la contraddizione…”.

Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale, sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri vecchi”.

I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più generale di burocratizzazione sindacale.

Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare, ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.

Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.

Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni, perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico, contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea bottalico)

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